Nell’ordinamento dell’imposta sul valore aggiunto una distinzione fondamentale riguarda la definizione del requisito oggettivo, cioè la qualificazione delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi.
Nell’ordinamento europeo, cioè nella Dir. 2006/112/CE, troviamo queste definizioni:
– art. 14 – costituisce “cessione di beni” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario;
– art. 24 – costituisce “prestazione di servizi” ogni operazione che non costituisce una cessione di beni.
Il nostro ordinamento è a dir poco datato in quanto il nostro risale al 1972, ma già allora si era discostato dalla seconda direttiva del 1967 (Dir. 1967/227/CE), la cui formulazione è stata integralmente ripresa in quella vigente.
Le definizioni della nostra legge, contenute negli artt. 2 e 3 DPR 633/72, hanno reso più complesse queste semplici nozioni, specie in merito alle prestazioni di servizi, che la norma nazionale configura in una serie di contratti tipici del codice civile, oltre alla norma di chiusura sulle obbligazioni di fare, non fare o permettere.
L’anomalia più rilevante riguarda l’inclusione nelle prestazioni di servizi di qualsiasi contratto d’opera o di appalto, come se fosse la stessa cosa costruire un edificio oppure gestire le operazioni di pulizia dei locali. Queste definizioni, sostanzialmente in deroga alla direttiva, confliggono con le operazioni transnazionali. Per fare due esempi, la costruzione di un impianto in Italia è considerata prestazione di servizi, in quanto consegue ad un appalto, mentre se è eseguita da un fornitore UE in Italia o da un fornitore italiano nella UE costituisce cessione di beni. Così il mobile costruito su misura rientra ancora nelle prestazioni di servizi, ma quando viene spedito all’estero dà luogo ad una cessione intraunionale piuttosto che ad un’esportazione.
Un tema diventato di attualità con la pandemia, in quanto i pubblici esercizi hanno dovuto limitare la propria attività all’asporto, riguarda il regime IVA di queste operazioni. L’art. 3 c. 2 n. 4) della nostra legge IVA qualifica nelle prestazioni di servizi le somministrazioni di alimenti e bevande, per le quali la voce 121 della tabella A, parte III, concede l’aliquota del 10%.
Ma quando il consumatore si reca in un pubblico esercizio, chiede una bibita e viene invitato a prelevarla nel frigorifero, siamo in presenza di una somministrazione ad aliquota 10% o ad una cessione ad aliquota ordinaria? Questo dubbio era nato nel 1973, in relazione alla prassi della Capitale, dove sia allora che adesso, molti bar hanno il frigorifero della centrale del latte. All’epoca l’aliquota del latte era l’1% e quella della somministrazione il 6% (come oggi abbiamo rispettivamente il 4% e il 10%), e la risposta fu quella di applicare l’aliquota propria del bene, in quanto il prelievo dal frigorifero (possesso vale titolo) comporta il trasferimento della proprietà.
Sorto il problema dell’asporto, per evitare ogni dubbio, l’art. 1 c. 40 Legge di bilancio 2021 (L. 178/2020) ha stabilito che la nozione di preparazioni alimentari di cui al numero 80) della tabella A, parte III, deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano anche le cessioni di piatti pronti e di pasti che siano stati cotti, arrostiti, fritti o altrimenti preparati in vista del loro consumo immediato, della loro consegna a domicilio o dell’asporto. Come si vede non si parla di bevande.
Questa terminologia della norma è stata quasi integralmente mutuata dalla sentenza della C.Giust. UE 10 marzo 2011, nei procedimenti riuniti C‑497/09, C‑499/09, C‑501/09 e C‑502/09 – Bog e altri, in cui si afferma nel dispositivo che:
– la fornitura di vivande o di cibi appena preparati pronti per il consumo immediato in stand o chioschi bar mobili o nei foyer dei cinema costituisce una cessione di beni, qualora risulti che gli elementi di prestazione di servizi che precedono e accompagnano la fornitura dei cibi non sono preponderanti;
– di regola le attività di catering costituiscono prestazioni di servizi;
– le cessioni di alimenti preparati come sopra detto possono beneficiare dell’aliquota ridotta come prodotti alimentari agevolabili.
L’argomento torna di attualità, oltre che per la norma nata dalla pandemia, perché la Corte di Giustizia è tornata in merito con la C.Giust. UE 22 aprile 2021 C-703/19 – J.K. La lite portata al Lussemburgo riguarda la legislazione della Polonia, dove abbiamo la particolarità che l’aliquota sulla cessione di prodotti alimentari è del 5%, mentre quella sulla somministrazione è dell’8%. L’amministrazione finanziaria tende pertanto a riqualificare l’operazione nelle somministrazioni per avere un maggior gettito.
La recente sentenza, che cita ben otto volte quella indicata in precedenza, perviene ad una conclusione interessante. Fermo restando che il servizio di ristorazione e catering deve essere accompagnato da servizi di supporto sufficienti per il consumo immediato da parte del consumatore, se il cliente finale sceglie di non utilizzare i mezzi materiali ed umani messi a sua disposizione (ad esempio il servizio al tavolo), la fornitura degli alimenti rientra nelle cessioni di beni.
Tornando alla normativa italiana, data l’identità di aliquota tra somministrazioni e cibi preparati, il problema resta ancora rilevante per la cessione delle bevande ad aliquota ordinaria, che non possono essere considerate come “somministrate”.